Le interviste di Allinfo.it : Stefano Ianne
Arriva Iamaca il sesto album di Stefano Ianne. Lo abbiamo ascoltato in occasione dell’intervista a lui dedicata e…
… e l’idea che ci ha attraversato, fin dalle prime tracce, ci ritorna quella sensazione di volo libero. E’ come se Ianne cercasse di imprimere emozioni che hanno bisogno di voce e note per essere raccontate senza però esserne schiavo, attento com’è al ben che minimo dettaglio.
Partiamo da un assunto. Tempo fa affermavi che quello che ti succede sia sempre la cosa giusta al momeno giusto. Resti sempre della stessa idea?
Sì. Nel senso che il risultato di quello che sono è frutto di tutti gli eventi in cui sono stato parte attiva. Ultimamente, credo di aver acquisito delle informazioni importanti grazie a tutta una serie di fatti che sono capitati nel momento a me più propizio.
Nulla viene per caso? Ma, cosa più importante, l’esperienza è sacrificio?
Decisamente. Ho cercato di fare musica di qualità e, se mi guardo indietro noto che, la qualità ha finito col ripagarmi. Ecco che, rispetto al passato, sono cresciuto: più consapevolezza; più tecnica; più visibilità. Ma tanti sono stati gli sforzi e ancora oggi proseguono.
Ci sono artisti che non riescono a percepire lo spessore della creatività che li attraversa. Tu sei riuscito a fare il bilancio di ogni singolo progetto portato a termine?
Si, anche se non sono in grado di valutarlo sul momento. Devo prima guadagnare la giusta distanza da ciò che ho fatto. Credo succeda a tutti. Nel dettaglio, quando penso di avere un periodo buio, in realtà , analizzandolo a posteriori, capisco che mi ha insegnato tante cose.
Iamaca nasce da una collaborazione importante con Mario Marzi e Stefano Calvano. Cosa vi unisce?
E’ nato da una insistenza di Calvano. Ci siamo conosciuti casualmente. Lui è un ottimo batterista, che suona nelle zone del ravennate e quando ci siamo incontrati ha ascoltato le mie cose e ha insistito perché mi mettessi gioco in prima battuta: sia come musicista, sia come compositore. All’inizio mi sono mostrato titubante, poi ho raccolto la sua sfida e, a posteriori, posso dire di aver fatto la scelta giusta. In pratica: ciò che immaginavo potesse diventare un disastro si è rivelato una buona idea.
L’immersione è tale e tanta che i brani diventano espressione diretta di emozioni vive. Nel caso di Iamaca sono 9 e tutte diverse?
Chi mi conosce bene sa che a me non piacciono i concepts e fin da Piano Car ho tentato di dare il là a progetti che fossero ben legati al presente, oltre che concretamente sperimentali.
Questo per dire che i miei dischi sono il risultato delle emozioni che provo sul momento. Il momento in cui viene fatto l’album è il momento in cui compongo e, quindi, provo le emozioni più forti. Poi tutto si perde.
E dove finiscono le mie cominciano quelle degli altri.
“Children Listen to the world”, ad esempio, è un po’ alla stregua di “Here’s to you” di Morricone dove ci sono quattro battute che, se girano bene, è inutile lavorare per dar loro una struttura. Meglio allora lasciarsi trainare dall’intuito e far sì che l’emozione e l’intuito facciano quello che devono fare. Se vengono fuori nove pezzi diversi tanto meglio. In Italia questo processo creativo non è ben compreso. All’estero é sinonimo di poliedricità, molto apprezzata.
Che peso dai alle tue emozioni compositive?
Posso dirti che, per tutte le esperienze di composizione, le emozioni sono identiche solo che prima, a fine progetto, vivevo una forte depressione… penalizzante… Ora, invece, dopo averla compresa perfettamente, ho imparato a gestirla: mi è bastato prendere atto che quelle emozioni sono finite e che per un po’ non ce ne saranno.
Per questo sono sempre proiettato su nuove avventure.
In Iamaca la sperimentazione spazia dal prog alla musica indiana. Qual è l’idea di base?
Che ci sia tanta musica. Anche senza un filo conduttore. C’è il Prog. C’è la musica indiana. E c’è l’improvvisazione. Per esempio Iamaca è un pezzo nato totalmente dall’improvvisazione. Prova ora ad immaginarlo eseguito live. Non credo riusciremo mai a ripeterlo uguale.
Continua quel concetto di “mondo visione” al quale sei legato indissolubilmente?
Si esatto. Anche se in Mondovisioni (terzo album) il filo conduttore era l’Orchestra sinfonica. Qui invece c’è la spinta a prendere il largo per tentare la percorrenza di strade altre. Lontane dalle mie abituali.
Nel tuo modo di concepire i progetti artistici spesso il presente si lega al futuro… tant’è che il momento live diventa anche l’opportunità per registrare nuovi brani?
Se parli del 27 ottobre ti posso dire fin da ora che registrerò solo due o tre bani di DUGA-3. E’ questo infatti il titolo del mio prossimo progetto ed è anche il titolo dello spettacolo live che terrò al Teatro Alighieri di Ravenna, con il patrocinio di Ravenna Manifestazioni, insieme a Mario Marzi e Stefano Calvano, gli altri due componenti del trio IAMACA. Diversamente da altri progetti la registrazione completa di DUGA-3 avverrà successivamente.
Perché Duga-3?
Sicuramente saprai che Duga-3 che sta a 12 km da Cernobyl, era l’antenna che era nata per disturbare le comunicazioni occidentali attraverso l’emissione di un segnale radio (Woodpecker) ad onde corte. Poteva essere ricevuto in tutto il mondo tra il 1967 e il 1989, anno in cui è cessata la sua trasmissione. In tale occasione si apprese che il nome ufficiale del sistema era Duga, che in russo significa “arco”…
In realtà alcuni sostengono che questa antenna non abbia mai funzionato. D’altra parte era talmente bella esteticamente che io ho immaginato che non potesse funzionare per una cosa negativa.
A proposito del 27 ottobre, questa data sarà anche l’occasione per ritrovarti con Valter Sivilotti e per conoscere dal punto di vista professionale Marco Titotto?
Con Titotto sarà un incontro nuovo e spero vada bene. Dirigerà la prima parte del live legata al mio repertorio. La seconda parte sarà, invece, diretta da Sivilotti. Sarà un po’ ritrovarsi visto che nel penultimo disco avevo deciso di non coinvolgerlo per indagare meglio il mio talento di compositore / arrangiatore. Tra l’altro con Valter Sivilotti c’è anche un legame affettivo che ci lega in maniera fraterna.
La serata vedrà anche la presenza dell’ONG Sea Shepherd?
Mi sembra giusto avvicinare qualcosa che è anche molto più importante della musica e i ragazzi di Shepherd che portano avanti azioni anche forti, di legittimità, quando si trovano di fronte a situazioni non legittime, si meritano di essere supportati.
Tornando al disco qual è stato il brano che ne ha determinato la genesi?
Ti posso rispondere con certezza assoluta: “MOONgolia Landing”, pezzo sperimentale lavorato sul filo del minimalismo spinto ma anche sull’onirico che rappresenta molto bene quello che io sono; ma anche “Children Listen to the world” che si avvicina ad una sintesi assoluta di concetti creativi che ricordano tanto i livelli di un mio pezzo storico: Aurora.
Al gioco della musica si unisce il gioco delle parole. Vedi il titolo “MOONgolia Landing”?
Sono molto legato ai territori della Mongolia i cui altipiani assomigliano al suolo lunare. Poi ho origini mongole, dunque, con “MOONgolia Landing” ho voluto fare un omaggio alle mie radici.
Di solito non si è soddisfatti di quello che si fa fino a quando gli altri non ci raccontano… sdoganandoci… Tu sei soddisfatto di questo tuo ultimo lavoro?
Sì assolutamente. E’ una delle migliori cose che ho fatto.
Di questo lavoro cosa vuoi che arrivi agli altri senza correre i rischio di essere travisato / snaturato?
Io in passato sono stato sempre preoccupato di sapere cosa pensassero gli altri della mia musica. Oggi lo sono un po’ meno. Mi preoccupa di più sapere che sono contento delle cose che ho fatto. Tutto il resto viene di conseguenza. So benissimo che gli altri proveranno emozioni diverse. A me basta sapere che non ho perso l’ispirazione.
Sarà che non provo il desiderio sfrenato di diventare popolare o che un mio pezzo possa sfondare.
Quindi ogni composizione, nel momento compositivo non rappresenta una fuga?
Ho due cose importanti nella mia vita. La mia famiglia e il momento in cui compongo. Quindi la composizione è il momento adatto per ritrovarmi.
di Giovanni Pirri
Rispondi